Di Giacomo Scaccabarozzi – Da “La Rivista del Club Alpino Italiano” n° 6/1998
Un viaggio oltre la vetta per capire alcuni importanti aspetti dell’ancor misterioso mondo dell’altitudine
Balmat e Paccard non potevano certo prevedere, più di duecento anni fa, che la loro cima sarebbe diventata un giorno la cima di tutti gli alpinisti, affermati e neofiti. Così come una decina d’anni fa nessuno poteva immaginare che in Himalaya le spedizioni commerciali avrebbero messo alla portata di un grande numero di persone (fortunate!) delle cime di 7000 e 8000 metri.
E questa è una tendenza che va prendendo sempre più piede, dando a molti l’impressione di assistere a una banalizzazione proprio di quella parte di montagna che sembrava esserne più immune. Ma banalizzare non significa diminuire le difficoltà. L’altitudine resta e resterà sempre l’altitudine. E, a meno di prodotti miracolosi, essa richiederà sempre delle notevoli doti.
Una nostra recente esperienza al Cho-Oyu ci ha dato la conferma di questo stato di cose e ci ha suggerito alcune riflessioni che possono fare comprendere meglio l’incredibile universo dell’alta quota e, senza alcuna pretesa. aiutare a fare capire quando vale la pena “osare”.
Approccio all’alta quota
L’assoluta quiete dell’alta quota attrae quanto un’opera d’arte. Eppure ogni anno le cronache delle ascensioni himalayane riferiscono con crudeltà che l’altitudine è una mangiatrice di uomini. Nonostante questo, i pretendenti alle quote estreme continuano ad aumentare. l’Everest, la cima più alta della terra, ha conosciuto a oggi più di 650 alpinisti (per circa 800 ascensioni), ma è costato la vita a circa 160 persone.
Da più parti si propone di riservare l’himalaysmo a una ristretta élite di alpinisti, o addirittura di metterlo al bando. Ma forse sarebbe più semplice fare delle serie riflessioni su questo fenomeno e sforzarsi di promuoverne la conoscenza a più livelli.
Dove comincia l’altitudine?
Sentendo parlare un alpinista che soggiorna da alcune settimane a un campo base di oltre 5000 metri si potrebbe credere che l’alta quota inizi proprio da lì. E in parte è vero, le porte del regno dell’altitudine iniziano più o meno da questa quota, ma esistono delle anticamere. E chiunque può rendersi conto. Si sa, per esempio, che certe salite compiute in pochi minuti a circa 3500/3800 metri possono provocare dei problemi. Quando si arriva lassù con la funivia ci si sente un poco bizzarri. Si tende a prendere la vita in modo diverso. La testa che duole e il fiato che soffia pesantemente sono i malesseri più comuni anche per coloro che raggiungono alcune stazioni sciistiche. Fenomeni che non hanno nulla di straordinario: l’ipossia, la mancanza improvvisa di ossigeno.
Paradossalmente, però, bisogna convenire, una volta per tutte, che in alta quota non c’è meno ossigeno che al livello del mare. La quantità di molecole di ossigeno nell’aria è la stessa a qualsiasi quota. Allora: c’è meno ossigeno a 8848 metri che su di una spiaggia di Viareggio? Perché si crede ciò? Semplicemente perché c’è una cosa che varia fortemente: la pressione atmosferica.
Al livello del mare essa è misurata in 760 mm Hg (millimetri di mercurio), sulla vetta del Monte Bianco essa è dimezzata e su quella dell’Everest è di soli 236 mm Hg.
Non è dunque la concentrazione di gas che importa quando si respira ma la pressione con la quale esso arriva negli alveoli polmonari. Una pressione che sulla vetta dell’Everest è tre volte inferiore che a Viareggio. Se prendiamo un individuo che vive in questa località e lo depositiamo sulla vetta dell’Everest esso morirà d’ipossia in breve tempo. Questo perché il cervello non può vivere senza ossigeno per più di tre minuti. Ma l’effetto della bassa pressione viene avvertito anche dal cuore, dai reni, nella respirazione.
Tutto questo ha fatto dire agli scienziati fin dalla prima spedizione all’Everest del 1920 che non è possibile raggiungere la vetta di un 8000 senza l’uso dell’ossigeno.
Immaginiamo in questo contesto la mentalità di Reinhold Messner e di Peter Habeler quando, il 2 maggio 1978, si apprestavano a raggiungere la vetta della montagna più alta del mondo senza utilizzare le bombole di ossigeno!
Eppure essi sono riusciti. E oggi non sono che i primi di centinaia di alpinisti che hanno raggiunto la cima di un 8000 senza avere fatto ricorso alle bombole con l’ossigeno artificiale. Anche se vi sono ancora alpinisti che lo utilizzano, soprattutto sopra il Colle Sud dell’Everest, durante li ultimi 846 metri di salita.
L’importanza dell’acclimatamento
Considerando questo si può dunque convenire che le cose sono cambiate dopo Messner. I pionieri dell’Himalaya utilizzavano l’ossigeno a partire da 7000 metri. Anche gli italiani lo utilizzarono sui 7120 metri del Trisul nel 1907, sul K2 nel 1954 e sull’Everest nel 1973.
Eccezioni encomiabili: l’inglese Norton, che compi nel 1924 un tentativo sulla nord dell’Everest fino a 8500 metri, i francesi Herzog e Lachenal (sembra), che raggiunsero la vetta dell’Annapurna (primo 8000) nel 1950 e Herrmnan Buhl, austriaco, quella del Nanga Parbat nel 1953 senza l’uso dell’ossigeno. Come mai dunque per molta gente risulta ancora impossibile sopravvivere a una tale privazione?
Il francese Pierre Beghin aveva ben centrato il problema con l’immagine dei “mutanti”.
Dei mutanti nel vero senso della parola in quanto, in alta quota, delle notevoli trasformazioni alterano l’organismo umano. E questa mutazione è l’acclimatamento.
Una messa in opera complessa dell’organismo che permette all’uomo di sopperire alla carenza di ossigeno causata dalla differenza di pressione e a tutte le difficoltà connesse. Una mutazione che tocca anche la psiche in quanto l’alta quota è veramente un mondo a parte.
Acclimatarsi e abituarsi all’altitudine. E questo deve essere fatto molto naturalmente. Nel giro di poche ore (più o meno sei), a circa 3000 metri, l’organismo fabbrica molti più globuli rossi, i veicoli dell’ossigeno. Al contempo il cuore e i polmoni trovano un altro ritmo: i battiti aumentano di intensità e la respirazione pure.
Sopraggiungono pure delle modifiche al sistema ormonale e dei cambiamenti sul piano dei tessuti muscolari e adiposi. Ma non solo; altri fenomeni arrivano a complicare questo adattamento a un universo invivibile. Fenomeni che neppure i ricercatori del Consiglio Nazionale delle Ricerche, dopo anni di studio, sono ancora riusciti a comprendere pienamente. Studi e ricerche fatte non solo col supporto di strumenti utilissimi, quali la camera iperbarica, o ipobarica, la quale consente di raggiungere quote anche di 8000 metri senza muoversi dal campo base.
Il rispetto delle tappe
L’adattamento all’alta quota non è, evidentemente, immediato. Esso necessita di molta pazienza. à costume dire che non si dovrebbero compiere più di 300 metri di dislivello al giorno sopra i 3000 metri di quota e si raccomandando alcuni giorni di riposo dopo avere superato la soglia dei 4000 metri.
Di fronte all’altitudine non siamo però tutti uguali. La maggior parte della gente avverte i malefici effetti dell’alta quota a quote diverse. E questo, oltre che rappresentare un altro problema, dovrebbe consigliare delle salite ancora più prudenti.
Il mal di montagna
Il mal di montagna si preannuncia sempre con un leggero mal di testa e può rapidamente evolvere in mal di montagna acuto sotto forma di edema polmonare e/o cerebrale.
E il mal di montagna acuto è sempre una conseguenza di un cattivo acclimatamento dovuto a una salita compiuta troppo rapidamente, a fattori di sensibilità individuale alla quota, a cattive condizioni esterne (freddo, vento, etc.), e, non ultimo, a fattori psicologici (tensione, paura).
E quando il mal di montagna evolve in edema le cose si fanno estremamente serie. li solo rimedio è la discesa più rapida possibile a quote inferiori, unita alla somministrazione di ossigeno terapeutico e di diuretici.
Ma sull’altopiano tibetano, a 4800 metri di quota, è praticamente impossibile abbassarsi di quota in poche ore. Ecco allora l’importanza di avere al seguito una camera iperbarica gonfiabile: solo essa potrà garantire la sopravvivenza in attesa di un abbassamento di quota dove potere recuperare. Per il suo noleggio le agenzie di Kathmandu richiedono circa 400$, mentre per l’acquisto occorre preventivare almeno 2000 .
Attenzione però a non improvvisare l’utilizzo di questa camera. In genere, le spedizioni (soprattutto quelle commerciali) tentano di prendere confidenza con la camera iperbarica una volta giunti al campo base, o addirittura più in alto (in fin dei conti non pesa più di 4 chilogrammi); in teoria basta pomparvi dentro aria per creare al suo interno una quota di 2000 inferiore a quella reale, ma è consigliabile apprendere prima qualche regola elementare riguardo il suo funzionamento, anche se all’apparenza non è più difficile da maneggiare di una bombola di ossigeno con la sua maschera.
Bombola di ossigeno che può essere anch’essa facilmente acquistata a Kathmandu, in uno dei tanti negozi del quartiere di Thamel, previo l’indispensabile verifica che sia piena (generalmente tra i 150 e i 250 bar) e che il dispositivo di attacco alla maschera funzioni perfettamente. occorre calcolare tra i 250 ed i 400 $ per una bottiglia di prezioso liquido e altrettanto per una maschera col suo bocchettone.
Nella regione meridionale dell’Everest vi sono molte più possibilità d’intervento in quanto a Pheriche esiste un dispensario medico con relativa camera iperbarica.
L’acclimatamento artificiale
In alta quota si può sopravvivere benissimo anche in seguito a un acclimatamento fatto artificialmente.Fin dal 1936 degli alpinisti inglesi utilizzarono per questo un ingombrante cassone iperbarico dell’epoca prima di raggiungere la regione dell’Everest. Più recentemente il francese Benoit Chamoux ha compiuto ascensioni “turbo” in Himalaya grazie a questa tecnica. Degli inglesi, nel 1923, arrivarono invece a ricercare l’acclimatamento artificiale addirittura con le sigarette. Essi formularono la strampalata ipotesi che il fumo fosse un buon antidoto contro l’ipossia. Anche altri inglesi arrivarono in seguito a suggerire metodi altrettanto bizzarri riguardo l’acclimatamento artificiale, quale l’uso della birra o di uno strano strumento a vento che avrebbe dovuto permettere il riutilizzo del proprio respiro. Strumento simile a quello che riprese in seguito Gianni Calcagno: un bocchettone da maschera subacquea tenuto in bocca durante l’ascensione in modo che impedisse un’evacuazione rapida dell’ossigeno dai polmoni.
Come identificare un’edema?
Si può comprendere come, in questo quadro, sia prioritario sapere identificare un edema. Cosa non sempre facile, tanto i suoi sintomi sono fluttuanti.
Nel caso di edema polmonare non vi sono parametri, ma una respirazione molto rauca, un colorito violaceo e della tosse persistente rappresentano di certo i primi seri segnali.
Più complesso è l’edema cerebrale: mal di testa, vomito, insonnia, allucinazioni, delirio e ma sono comunque in successione i passi che possono portare rapidamente alla morte.
I problema è capire quando un leggero mal di testa o delle vertigini possono sfociare in edema. Certe persone si sentono complessate nel dovere confessare i propri mali in alta quota, preferendo tenerseli per sé e arrivando a creare delle situazioni estremamente pericolose. Capita i frequente che degli escursionisti muoiano durante la notte nelle proprie tende semplicemente perché non osano, o si vergognano, confessare i loro mali.
In tutti i casi, trekkers e alpinisti, dovrebbero dunque prestare molta attenzione a se stessi e li altri. E, soprattutto la prima notte in alta quota, non si dovrebbe mai passarla da soli o troppo isolati dagli altri. molto raro che non si soffra in alta quota, e questo può durare agli 8 ai 10 giorni, se non di più. li primo rimedio al mal di testa è sempre rappresentato alla sacrosanta Aspirina. In altitudine si può consumarne fino 4 grammi al giorno, se non si allergici, altrimenti può funzionare anche l’aglio. più frequentemente il mal di testa insorge al mattino, meno dopo i pasti. Può capitare che dei spiri profondi possano alleviarlo, ma se non cede neppure l’Aspirina meglio ridiscendere. Non è stupido neppure dormire con la testa sollevata. Infine, l’imperativo è quello di bere molto e cercare di urinare altrettanto abbondantemente.
L’edema è infatti in buona parte causato da una ritenzione di liquidi da parte dell’organismo: uno dei migliori medicinali in commercio col quale prevenire questo fatto e il Diamox, ma è da prendere sotto controllo medico (la cui presenza al campo base è indispensabile) in quanto può avere degli effetti secondari, come dei fastidiosi formicolii alle mani o ai piedi.
Un po’ fuori di testa
Si ritiene che, là in alto, si perdano numerosi neuroni e che l’85% di questi addirittura non vengano utilizzati. Secondo studi effettuati da un’équipe statunitense su degli alpinisti che hanno passato una notte a 8000 metri, o che hanno passato più settimane tra i 5000 e i 7000 metri, occorre più di un anno perché essi riprendano in pieno le proprie capacità intellettuali. Ma cosa si prova effettivamente durante una spedizione un “poco alta”? Conosciamo la storia di Reinhold Messner che rimase allibito nel riascoltare i suoi discorsi registrati su di un nastro durante la salita di uno dei suoi 8000, o di Doug Scott che, durante un suo bivacco a 8600 metri sulla parete sud ovest dell’Everest, passò la notte a conversare coi suoi piedi. In quanto a Erhard Loretan e Jean Troillet, al ritorno dalla cima dell’Everest erano convinti di avervi dimenticato un trasformatore elettrico. Inoltre, Loretan si diceva convinto di avere fatto tutta la discesa lungo la parete nord in compagnia di alcune majorette in costume.
Notizie di alpinisti che perdono il senso della distanza e del tempo non sono poi tanto rare, così come quelle di altri che non si ricordano come fissare un rampone, o si dimenticano di fare foto. Il mondo dell’alta quota è il mondo delle sorprese, dell’incertezza, come se si entrasse in altri spazi, in altri tempi, in altre persone: un mondo a parte!
Questo universo di nuove percezioni è chiamato “la zona della morte”, così come l’ha chiamata Messner.
Oltre gli 8000 metri si viene letteralmente proiettati in un universo nuovo per i sensi e per l’intelligenza. E comunque un’esperienza personale che ognuno vive a gradi diversi. Curiosamente può esserci gente che trova stimoli nuovi, altra che dimentica completamente i propri.
Ma una delle verità più impressionanti è che l’alta montagna è abitata dalla morte.
Gente che ha messo la tenda al Colle Sud dell’Everest accanto a dei cadaveri, gente morta appesa a delle corde fisse, gente arrivata sulla cima dell’Everest in piena notte con le cornee gelate. E importante non dimenticarlo: l’altitudine attrae come una droga e spesso ci si dimentica dei rischi che comporta. Durante un trekking o una spedizione, inoltre, non bisogna scordare il rischio che comporta il volere ricominciare a salire dopo avere evitato un edema. La voglia di ripartire immediatamente, di ritrovare mondi sconosciuti, è pericolosa, soprattutto quando si superano i 7000 metri, quando facilmente si cessa di essere se stessi. Attendere può deprimere. ma la fretta e il buonumore in queste occasioni possono essere molto rischiosi.
Uno dei sistemi più semplici per capire se lo spirito e il fisico sono nelle situazioni ottimali è fare piccoli test con la memoria, ma non ricordando i numeri di telefono, di carte di credito, di nomi; la memoria anziana rimane spesso intatta. E’ la memoria viva che si ammala: la via da salire che sembra molto più semplice, il cattivo tempo che viene ignorato…
Imparare a sopravvivere
In altitudine i centri respiratori sono depressi. Fiato corto e accelerato con conseguente mal di testa, apnea prolungata, fino a 25 secondi a circa 4000 metri, sono cose normali ma sono cose estremamente pericolose, soprattutto di notte. La poca anidride carbonica presente nell’aria non è sufficiente per stimolare i centri respiratori, e questo va ad aggiungersi alla già scarsa pressione atmosferica. Tutti fenomeni che arrivano e spariscono altrettanto misteriosamente. Un consiglio imperativo è quello di non assumere sonniferi, in quanto agiscono da deprimenti respiratori, sforzarsi di stare calmi, respirare tranquillamente e profondamente, aprendo il diaframma, evitare di agitarsi inutilmente.
Si potrà tranquillamente giocare a carte, leggere un libro, ascoltare della musica e conversare, ma bisognerà anche fare piccoli sforzi, tipo salire 200/300 metri più in alto a fotografare un tramonto o a portare una tenda. Occorrerà anche prestare molta attenzione a quanto si mangia, ai problemi intestinali e al mal di gola, che, nel caso fossero insistenti, andranno combattuti senza esitare con degli antibiotici.
Durante la nostra spedizione al Cho-Oyu, dei 18 alpinisti arrivati al campo base avanzato (5 dei quali non avevano mai superato la quota del Monte Bianco) almeno una dozzina hanno dovuto assumere antibiotici; e una cosa tira l’altra, in quanto si possono poi avere dei problemi di stomaco e delle nausee.
La farmacia dovrà dunque essere completa. Una soluzione eccellente è quella di preparare una lista con indicati, accanto al nome dei medicinali, i sintomi, il responso medico, la posologia e le eventuali controindicazioni. Si eviterà così di porsi troppe questioni nei momenti meno opportuni.
Riassumendo, durante il periodo di acclimatazione occorre:
- andare lentamente;
- sapere fermarsi e riposare;
- essere attenti ai sintomi dolorosi e ai loro segnali;
- sapere scendere se i sintomi dolorosi persistono;
- bere bene e mangiare bene – evacuare altrettanto;
- dimenticarsi al massimo dello stress e vivere il più possibile nel comfort della propria tenda.
Pillole di benessere
A forza di frequentare l’altitudine si imparano molte ricette per il benessere. La prima è quella del buon umore. L’altitudine ha il “dono” di risvegliare l’aggressività. Ho visto gente venire alle mani per un nonnulla, per una storia di corde o per una storia di dolci; buon umore, dunque, e un po’ di spirito, su se stessi in primo luogo, la tolleranza e la coscienza delle proprie possibilità.
Seconda ricetta: il comfort. Una buona tenda mensa, dove si vive per lungo tempo, al riparo dal vento, meglio se con un tappeto per terra. Si può acquistare con pochi dollari una coperta cinese colorata, rende anche di buon umore. Caldo, musica, riviste, libri, lampada a gas, qualche gioco, sono tutte cose che aiutano a rendere confortevole un ambiente dall’inospitalità bestiale.
I materassini delle tende personali dovranno essere del tipo Karrimat o gonfiabili, e, particolare scabroso, si consiglia vivamente anche un contenitore ermetico per i bisogni notturni.
Così come si consiglia di avere nel proprio bagaglio dei viveri personali: una bottiglietta di cognac, un tubetto di maionese, una scatola di biscottini, qualche cioccolatino e tante caramelle.
Potrebbe sembrare ridicolo, ma lassù sono un vero lusso. Servono anche per rompere il ritmo della classica trilogia alimentare: patate, riso e tè.
I thermos degli sherpa sono sempre pieni di acqua calda, tè nero e succo di frutta, ma avere con sé dello sciroppo, limonata, tè liofilizzato e sali minerali di vario gusto è altrettanto importante. E per l’acqua fresca, oltre a un grande contenitore, il “micropure”.
Molto utili al campo base sono anche il duvet di piumino e i doposcì. Sono gli unici capi di vestiario che possono offrire un comfort pari a quello di casa propria. Durante l’avvicinamento occorre averli sempre con sé, in quanto gli Yak potrebbero arrivare al campo qualche giorno dopo, lasciandoci così al fresco. Ultimo elemento di comfort: essere curiosi degli altri. E gli altri non sono necessariamente i propri compagni.
Gli altri possono essere quegli sherpa che ci risvegliano al mattino con una calda tazza di tè. imparare qualche parola di inglese, se non addirittura del loro idioma, in modo da potere conversare con loro. Non sono gli sherpa ad avere bisogno di noi, siamo noi a non potere fare a meno di essi.
Qualche piccolo particolare al posto giusto può apportare molti più benefici di quanto si possa immaginare.
Preparare il materiale
E’ molto importante avere due sacchi a pelo a testa. Uno per il campo base (va bene anche se n molto pesante) e l’altro che farà su e giù tra i campi alti. Meglio ancora è potere disporre più sacchi a pelo d’alta quota, o per ogni campo. Altrettanto importanti sono il thermos e la preparazione dei viveri personali d’alta quota, da razionare in piccoli sacchetti di plastica: tè e solubili (il caffè, tra l’altro è ottimo in alta quota, anche per il cuore, e non impedisce di dormire), zucchero, cereali e frutta secca, latte in polvere o condensato, confezioni di marmellata, formaggio e biscotti per colazione. Per la cena, in alternativa a una busta di minestra liofilizzata, si possono utilizzare paio di razioni di Lyofal (pasta o risotto o purè liofilizzato monodose), speck o bresaola, cioccolata, polvere solubile per bevande, tisana. Attenzione ai corvi: sistemate gli alimenti al centro delle tendine.
Durante la salita si possono integrare queste razioni con delle barrette energetiche, dei bonbon, delle fettine di speck e dei sali minerali. Tenere le barrette e la cioccolata in una tasca della giacca a vento, al riparo dal freddo.
Oltre l’Aspirina non dimenticare qualche medicinale personale (antinausea, collirio).
Durante il trekking il problema è molto diverso; sulle vie frequentate vi sono diversi lodge dove potere acquistare da bere e da mangiare. Lo zaino dovrà contenere solamente la borraccia (e del micropure), una microfarmacia, l’ombrello, delle magliette di ricambio, qualche bonbon, una pila frontale, un duvet, un maglione, materiale per la toiletta e l’apparecchio fotografico con le pellicole.
Per tutto il resto ci si dovrà solo preoccupare di imballarlo in sacchetti di plastica: al resto ci penseranno i portatori. E avere al seguito dei portatori è una delle cose che più raccomandiamo a chiunque, se non altro per essere liberi in ogni movimento.
Comincia l’ascensione
Abbiamo finalmente lasciato il campo base per iniziare l’ascensione. Pensiamo solo a una cosa: salire lentamente e molto vigili, su se stessi e la montagna. I campi alti devono essere il meno esposti possibile al rischio di valanghe. E all’interno della tenda bisogna bere, bere!
Sui plateau nevosi bisogna porre delle bandierine colorate per orientarsi in caso di nebbia. I grossi seracchi andrebbero equipaggiati di corde fisse, soprattutto per la ritirata. In questo caso è utile avere una maniglia jumar legata con un cordino all’imbracatura.
La notte che precederà l’ascensione alla vetta bisognerà essere forti e decisi soprattutto nella testa, prima ancora che nelle gambe.
E il giorno fatidico fare attenzione a non oltrepassare mai i tempi di salita che ci si è prefissati. Se abbiamo deciso di raggiungere la vetta in 13 ore, passate queste bisogna scendere.
Non è raro trovare dei casi di cordate disperse e di alpinisti morti a causa della stanchezza; e questo anche sui così detti “8000 facili”. L’attrazione della cima a questo punto è molto più forte della ragione; sovente si è portati a passare i propri limiti senza pensare alla discesa.
Sappiamo di gente arrivata per due volte a 50 metri dalla vetta dell’Everest che ancora lo può raccontare. E la discesa, in effetti, è il momento più delicato, e anche pericoloso, di un’ascensione di questo tipo. La fatica e l’estasi per la vetta raggiunta provocano
un abbassamento di vigilanza. Inoltre, bisogna scendere il più in basso possibile per mettersi al sicuro. La salita a un 8000 classico è seguita solitamente da una discesa fino a circa 7000 metri.
In breve, bisogna essere economi con un 8000: lentamente verso l’alto e vigilanti verso il basso.
I dati della spedizione Tibet ’97 – Cho-Oyu – 8201 m
La Longoni Sport – Tibet ’97 è stata organizzata autonomamente grazie ai contributi dello Sezione di Vimercate del Club Alpino Italiano, del Gruppo Gamma di Lecco e del Gruppo Sportivo Alpini di Missaglia, col supporto tecnico della conosciuta azienda di Barzanò (Lc) e logistica dello China Tibet Mountaineering Association di Lhasa (tel. 0086 891 6333720 – fax 0086 891 6336366) e dell’agenzia Asian Trekking di Kathmandu (tel. 00977 I 41 5506 – fax 00977 I 420604).
Ad esso hanno partecipato membri dei gruppi organizzatori e delle sezioni CAI di Darfo, lecco, Merate, Frosinone e Colleferro, tutti allo primo esperienza a un 8000 e buona parte di essi alla prima esperienza extra europea in assoluto.
Marco Airoldi di Milano, Marco Anghileri di lecco, Luis Burgoa (medico alpinista) di Mapello, Nicola Caruso (medico) di Anagni, Giorgio Cemmi di Darfo, Marco Corti di Valmadrera, Andry dell’Oro di lecco, Siro Faustinoni di Darfo, Claudio Ghezzi di Missaglia, Pietro Isacchi di Cisano B.sco, Eugenio Manni di Vercurago, Claudio Mastronicola di Frosinone, Ulderico Mazzoleni di Lecco, Marco Perego di Merate, Emilio Previtali di Bergamo, Giacomo Scaccabarozzi di Missaglia, Anouk Tanchis di Valmadrera, Alberto Valsecchi di Lecco, Alberto Varni di Lecco.
Importanti supporti tecnici sono stati forniti anche da: Bracchi Autotrasporti di Foro Gera d’Adda, Fonti Fiuggi, Camp di Premana, Coleman e East Pole di Valmadrera, Supermercati Rex di Oggiono, Star di Agrate B.za, Montidee di S. Caterina, Banca Popolare di lecco e Bellavite Editore di Missaglia.
Durata sei settimane nella stagione post-monsonica, quella più ricca di neve, la Longoni Sport – Tibet ’97 si proponeva di utilizzare per la disceso sci, snow board e parapendio. Programma solo in parte rispettato a causa delle condizioni climatiche trovate: neve molto profonda e vento.
Sci e snow board sono comunque stati utilizzati dal campo 3 (m 7400) su ripidi pendii, mentre il parapendio ha potuto essere aperto solo da quote più basse.
Dal 21 al 27 di settembre 1997 la vetta è stato raggiunta da Giacomo Scaccabarozzi (in solitaria), Giorgio Cemmi, Marco Perego, Marco Airoldi e, in solitaria, da Claudio Mastronicola. Gli altri componenti hanno dovuto rinunciare al campo 3 a causo del freddo, del vento o dell’affaticamento.